Le plastiche del futuro non potranno che essere biodegradabili o riciclabili. Intanto, però, l’UE mette in guardia da greenwashing e sovrapproduzione
Negli ultimi anni le immagini del Great Pacific Garbage Patch (noto a molti come “isola di plastica”) hanno rapidamente fatto il giro del mondo, rafforzando soprattutto nei giovani una nuova coscienza ambientalista. Secondo il WWF, solo negli oceani vengono dispersi ogni anno 8 milioni di tonnellate di rifiuti. Numeri incredibili e agghiaccianti, di cui abbiamo parlato più volte (qui ad esempio), tanto che qualcuno ha pensato di realizzare veri e propri musei che raccolgono gli oggetti più rari e bizzarri rinvenuti sulle spiagge italiane. Eppure quello della plastica è ormai un problema che coinvolge interamente la biosfera, al punto che alcuni ricercatori dell’Università di Vrije hanno documentato la presenza di microplastiche nel sangue umano. Così, mentre nel mondo c’è chi si ingegna per dare nuova vita ai rifiuti plastici, le istituzioni spingono per l’utilizzo di plastiche green: riciclabili, biodegradabili e compostabili. Ma cosa significano veramente queste categorie?
Riciclabile
Con questo termine si indicano quei materiali plastici che possono essere oggetto di riciclo. Ciò significa che i rifiuti (se opportunamente differenziati) possono subire un processo di lavorazione che li porta ad essere riutilizzati per la produzione di nuovi oggetti. Per poter essere riciclata, la plastica deve essere prima ripulita delle impurità, suddivisa per polimeri e infine ritrasformata in “materia prima” mediante processi che possono essere meccanici (riduzione in granuli) o chimici. Il problema del riciclo è che presuppone l’esistenza di una filiera estremamente efficiente, che parta dagli attori coinvolti nella raccolta differenziata (cittadini, servizi di raccolta ecc…) e arrivi fino alle infrastrutture necessarie per dare nuova vita ai rifiuti. Per aggirare questa criticità, negli ultimi anni la ricerca si è concentrata sulla creazione di materiali biodegradabili e compostabili.
Biodegradabile
Si dice “biodegradabile”, invece, quella plastica progettata per decomporsi alla fine del suo ciclo di vita. In questo caso i polimeri si trasformano principalmente in anidride carbonica, acqua, nuova biomassa microbica e sali minerali. Naturalmente su tale processo (che dovrebbe avere durata di circa sei mesi) incidono fortemente le condizioni ambientali: temperatura, luce e agenti atmosferici in generale.
Compostabile
Le plastiche compostabili, infine, sono pensate per essere trasformate in compost attraverso processi di biodegradazione in ambiente controllato (compostiere domestiche, impianti industriali, biodigestori…). Possono, in un certo senso, essere considerate una sottocategoria delle plastiche biodegradabili. Il principale vantaggio di questi materiali è che il compost è una sostanza che, grazie alle sue proprietà nutritive, può essere reinserita in natura in modo funzionale (può, per esempio, divenire concime). A differenza delle normali plastiche biodegradabili, quelle compostabili dovrebbero avere un tempo di decomposizione non superiore ai tre mesi.
Greenwashing e consapevolezza
L’utilizzo di plastiche green è da tempo attenzionato dall’Unione Europea. Bruxelles, infatti, se da un lato ne incoraggia la diffusione, dall’altro realizza linee guida per evitare la sovrapproduzione di imballaggi (anche se biodegradabili o riciclabili) e per istruire i cittadini rispetto a fenomeni come il greenwashing (o ecologismo di facciata): la strategia di comunicazione usata da molte aziende per “ripulirsi l’immagine”, nascondendo gli effetti negativi che le proprie filiere produttive hanno sull’ambiente attraverso l’impiego, per esempio, di plastiche “ecosostenibili” nella realizzazione del packaging.
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_Matteo Donisi