Bassa qualità dei prodotti, alto impatto ambientale, lavoratori sottopagati, plastica e rifiuti: tutto ciò che (non) volevamo sapere dell’industria della moda veloce
Difficile dirlo con precisione, ma pare che il termine “fast fashion” sia nato nel 1989 sulle colonne del New York Times, in un articolo scritto per raccontare l’apertura del primo negozio Zara della città. Da allora queste parole si sono diffuse in tutto il mondo, entrando nel vocabolario e nella vita quotidiana di miliardi di persone e divenendo sinonimo di inquinamento ambientale e scarsa etica. Ma cosa significa precisamente fast fashion? E perché faremmo bene a starne alla larga?
Cos’è il fast fashion
Per “fast fashion” si intende quel ramo dell’industria della moda che realizza e vende abbigliamento di design a basso costo e di bassa qualità. I colossi di questo settore (parliamo delle grandi catene presenti in tutte le principali città del mondo) lanciano continuamente nuove collezioni, per far sì che i loro prodotti siano sempre appetibili e per spingere i clienti a cestinare velocemente gli indumenti vecchi per comprarne di nuovi. L’effetto che questo approccio ha avuto sui consumi è sotto gli occhi di tutti: nel Regno Unito il consumo di “moda low cost” è cresciuto di oltre i 35% in appena 5 anni, tra il 2001 e il 2005.
Il problema della sostenibilità: numeri che fanno paura
La principale problematica legata all’industria del fast fashion è quella della sostenibilità ambientale del processo produttivo. Nel 2018, solo per fare un esempio, è stato calcolato che il comparto della moda a buon mercato immetta in atmosfera tra le 4.000 e le 5.000 tonnellate di CO2 ogni anno. Se si conteggiano anche la produzione di accessori e calzature, si può affermare che la produzione di abbigliamento sia responsabile di circa il 9% delle emissioni globali. Ad incidere enormemente è anche tutta la logistica (e quindi i traffici intercontinentali) necessaria per spostare materie prime e merci.
Inoltre sono quasi 100.000 le tonnellate di rifiuti tessili prodotti ogni anno. La bassa qualità di tali prodotti e il continuo cambiare delle mode, rende l’abbigliamento fast fashion estremamente soggetto a obsolescenza. Questa enorme mole di rifiuti, poi, finisce nelle inquietanti città spazzatura in cui si accumulano i rifiuti di tutto il mondo. Un problema assolutamente non sottovalutabile e difficile da risolvere, nonostante esistano numerose esperienze virtuose di start-up innovative che cercano di ridurre la produzione di rifiuti incoraggiando il riuso.
Anche i resi gratuiti ormai sono un enorme problema: ne abbiamo parlato nell’episodio 13 del nostro podcast Alto Voltaggio (puoi ascoltarlo qui).
Infine c’è da considerare l’impatto della produzione tessile sugli ecosistemi naturali a causa dell’uso di pesticidi, coloranti e sostanze dannose di vario tipo, che si rendono necessari per permettere la realizzazione dei capi di abbigliamento low cost.
Lo sfruttamento dei lavoratori
Per vendere abbigliamento a basso costo, spesso i colossi del fast fashion si trovano ad aprire i propri stabilimenti produttivi in Paesi in cui il costo del lavoro è decisamente più basso rispetto agli standard occidentali. Realtà in cui i lavoratori non sono tutelati come avviene nel nostro continente. Si apre quindi anche un tema etico che riguarda non solo (e non tanto) i salari bassi di chi lavora per i principali brand, quanto le condizioni di lavoro e i diritti di cui godono gli operai.
Il problema delle plastiche
Infine c’è il problema delle plastiche. Già, perché bisogna sempre ricordare che una buona parte dei nostri capi di abbigliamento è realizzata con tessuti sintetici, quasi sempre polimeri. Non deve stupire, quindi, che l’industria della moda veloce sia responsabile di circa il 30% delle microplastiche presenti negli oceani. Numeri da capogiro, che naturalmente tengono conto anche di tutti i rifiuti plastici prodotti dalla filiera produttiva (si pensi, per esempio, agli imballaggi).
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_Matteo Donisi