Quando i valori sociali fioriscono nella pratica artistica giovanile
Il Teatro delle Selve, che vanta una non trascurabile storia di attività formative con studenti di scuole d’ogni grado e universitari, ha da poco intrapreso due nuovi progetti con altrettanti istituti del novarese, il liceo classico “Don Bosco” di Borgomanero e la scuola secondaria di primo grado “Mario Soldati” di Orta San Giulio.
Attività dove non solo si sperimenta quella particolare energia che si produce nel fare teatro, ma che prevedono la costruzione di sequenze spettacolari i cui temi sono tra quelli che stimolano le riflessioni più importanti, oggi, sul futuro del pianeta e della specie umana.
Il riscaldamento globale, l’inquinamento, e in generale le questioni implicate nel collasso graduale degli ecosistemi, sono, purtroppo, i problemi che ci accompagneranno nei prossimi anni.
E dunque “sostenibilità”, come indicato dalla Fondazione Cariplo che finanzia il progetto al “Don Bosco” nell’ambito del bando LAIVin, e l’inquinamento da plastica, argomento scelto da ragazzi e docenti di Orta, sono le tematiche che daranno vita a due originali pezzi teatrali da presentare a maggio e giugno al Teatro degli Scalpellini di San Maurizio d’Opaglio e al festival dei progetti LAIVin, a Lecco, che vedrà la partecipazione di 45 scuole di Lombardia e Piemonte.
La scuola come campo di forze… che cosa facciamo quando facciamo teatro?
La scuola e il teatro sono due poli di un sistema energetico che se si attiva in un certo modo può produrre una corrente vitale benefica per l’una e per l’altro. Il teatro fa bene ai giovani perché mette in moto una fantasia concreta, non puramente mentale, cioè sganciata dalle funzioni del corpo: per esempio il movimento ritmico e associativo, l’espressività sociale che per gioco si deforma e si dilata nel senso della maschera o del “tipo”.
Nel teatro il parlare può diventare straparlare, senza incorrere in sanzioni sociali, e anzi con gusto della trovata, superando le necessità discorsive della comunicazione quotidiana per addentrarsi in zone dove parlare è giocare a perdersi e a ritrovarsi, anche nell’emissione dell’urlo o nella struttura corale di un dire per ritmo di versi che scardinano il flusso regolare del parlato.
Perché lo scatenamento fa bene, lo sapevano i Greci antichi: Dioniso, il dio del teatro è un dio dello scatenamento, della trance. Lo “scatenamento del corpo matto” per usare una magnifica espressione dello scrittore Gianni Celati. Tutti sappiamo quanto il corpo, nel modo in cui è vissuto nella nostra società, sia considerato per un verso come un simulacro che deve aspirare alla più efficace ed efficiente manifestazione estetica secondo rigide regole di appariscenza, e per l’altro sia quasi visto come un ricettacolo di dispositivi di realtà virtuale: pensateci, quante ore quella tavoletta di plastica rimane attaccata al nostro orecchio, alla bocca o a una delle natiche per tramite della tasca posteriore dei pantaloni? L’aderenza che per ora è solo funzionale, potrà forse diventare fisiologica? Avremo cellulari cuciti alle orecchie o infilati sotto pelle in cui tutte le funzioni verranno direttamente gestite da una speciale applicazione del senso della vista che permetterà di crearsi schermi davanti agli occhi premendo un tasto nascosto nell’unghia? Fantascienza, forse; ad ogni modo il corpo possiede un’intelligenza, delle risorse e delle necessità che non sono solo quelle del riposo e della sedentarietà che ci rincorre con la sua richiesta di resa totale alle sue esigenze di divanità; il corpo ha per converso tratti di divinità, altroché, che dovremmo scoprire in noi prima che vengano perdute. Del resto se per i greci antichi il teatro aveva rapporti con il divino, noi abbiamo la tivù che invece ha rapporti col divano.
Il circuito spettatore-attore
Il teatro si fa all’interno del circuito imprescindibile spettatori-attori, che è un circuito sacro, dove c’è una continua modalità di relazione in cui “proposta-risposta-proposta” si susseguono e costruiscono, nel loro concatenarsi, un evento, un racconto, un’evocazione. La nostra società ha staccato attore e spettatore, li ha distanziati nell’etere televisivo fino a collocarli agli antipodi, lasciando ben poco dell’antica partecipazione connessa al rapporto vivo tra attore e spettatore. Ciò che è rimasto è la divinizzazione dell’uno e la divanità dell’altro. Perché il rapporto con il “divino”, o comunque con stati alti e altri di coscienza, dovrebbe pur sempre essere un elemento terzo in questo rapporto, un punto di tensione, un orizzonte di aspirazione; invece nell’attualità troviamo solo una funzione narcisistica, un’assunzione di divismo, nell’attore, e nello spettatore una funzione passiva di adorazione acritica. Perciò fare teatro nella scuola può riportare a giusta misura tutto il rapporto falsato che rischiamo di avere col nostro corpo e con la funzione di rappresentanza che in genere deleghiamo agli attori, specie a quelli famosi, ai divi, cioè a coloro che si assumono un’aura di divinità accessoria senza averne l’effettivo potere. Aura che semmai scaturisce da dentro il corpo e nel circuito sacro spettatore-attore; la potremmo anche chiamare consapevolezza superiore, controllo della mente sul corpo, senso dei rapporti, misura del movimento mentale e fisico, senso del ritmo individuale e di un gruppo che si muove, coralità. Chiunque abbia provato su di sé tutte queste cose sa che producono benessere e gioia.
_ di Franco Acquaviva