Perdersi nel silenzio è il primo passo per migliorare la propria psiche e riscoprire se stessi
Cos’è il silenzio? Una domanda apparentemente banale a cui però si fa fatica a rispondere. Il silenzio è l’assenza di suono, potremmo dire… ma abbiamo mai sperimentato il non-suono? Il nostro cervello in movimento ci ha forse mai permesso di immergerci nel silenzio totale? Certo che no.
In Silence: In the Age of Noise, Erling Kagge ci accompagna per mano in un’avventura all’insegna di quell’entità che a volte temiamo e altre volte aneliamo ma che difficilmente sapremmo descrivere. Il silenzio. E, inaspettatamente, proprio con le sue parole riesce a trasportarci nel silenzio più totale e proficuo che potremmo mai desiderare.
Il silenzio come condizione mentale
In questo nostro mondo abbiamo una gran paura della noia.
Colmiamo ogni vuoto, famelici di azioni da compiere, un gesto dopo l’altro.
Se ci sediamo sul divano o guardiamo un panorama, un attimo dopo sentiamo irrefrenabile l’impulso di controllare lo smartphone, di scattare una foto, di condividere la serenità che, paradossalmente, scaturisce dall’assenza di azioni, parole, suoni.
Non sopportiamo di restare a lungo fermi nel silenzio.
Quando lo facciamo è perché ci siamo imposti un momento di stop.
Kagge parla correttamente di “dopamine loop“. Sappiamo di non aver ricevuto e-mail perché nessuna notifica ci ha avvertiti ma continuiamo a gettare uno sguardo sullo schermo.
È la dopamina a renderci schiavi del meccanismo: il cervello non riceve il segnale della nostra soddisfazione dopo aver compiuto una certa azione e quindi continuiamo a compierla senza un reale obiettivo. Abbiamo sempre bisogno di qualcosa in più: di giocare ancora un altro po’ a quel videogame, di dare un’ultima occhiata alle notifiche, di lasciare un altro commento sotto quel post e così via.
È un circolo potenzialmente infinito che porta all’assuefazione, per utilizzare un termine più immediato per tutti. Facciamo ricerche su Google ma, trovato ciò che ci interessava, continuiamo a cercare altro senza un reale motivo. Postiamo sui social e attendiamo che qualcuno si accorga di noi, usando app create appositamente per generare quell’assuefazione e condurci all’estremo, a quella sensazione ribattezzata “Fomo”, Fear of Missing Out, paura di essere tagliati fuori dal mondo, di perdere qualcosa di essenziale se non restiamo sempre connessi.
Ecco, il silenzio è l’esatto contrario di questo meccanismo.
È riuscire ad immergersi nel singolo momento, viverlo pienamente, assaporarlo a fondo.
Silenzio è disconnessione, è un modo preciso di essere presenti nel flusso del tempo: essere presenti senza esserci. È chiaro che non è affar semplice, ma questo volumetto scritto da un esploratore norvegese – un superuomo per certi versi – è l’occasione buona per fare un breve tentativo di immersione in un flusso positivo di disconnessione.
Il silenzio interiore che copre tutto
Il silenzio, dunque, è interrompere un meccanismo perverso. Ma ognuno di noi potrebbe suggerire una metafora differente. La montagna, un bosco, la natura, la mente che si svuota durante una nuotata o una corsa, mentre magari gli auricolari nelle nostre orecchie fanno risuonare le note potenti di un riff. Tutto questo può essere il silenzio, ma ogni risposta sembra descriverlo soltanto in una sua piccola sfumatura.
Kagge racconta una storia. Riporta il dialogo con un calciatore che descrive l’attimo prima del goal e l’assenza di suoni nella frazione di secondo antecedente il tiro in porta. È proprio lui, il protagonista della scena, il primo a capire di aver segnato. Lo stadio è saturo di rumore ma per lui non esiste nulla. Eccolo, il silenzio interiore a cui fa riferimento Kagge. Qualcosa che, con tanto allenamento, possiamo imparare a riconoscere, a “sentire”, a ricreare.
Il silenzio non è fuori, nel mondo. Il silenzio è dentro di noi, se lo vogliamo.
Schiavi della velocità?
Quando abbiamo iniziato a cercare il silenzio?
Nella vita quotidiana spesso lo temiamo, tendiamo a evitarlo, a riempirlo ossessivamente. Forse abbiamo paura di doverci confrontare con noi stessi nel momento in cui lo otteniamo.
Qualsiasi nostro processo di creazione del silenzio coincide con il goffo tentativo di mettere a tacere i suoni provenienti dall’esterno. Forse, proprio a causa di quella paura, facciamo finta di non sapere che il verso silenzio è qualcosa di più profondo, assordante, che risale da dentro.
L’umanità ha iniziato a desiderarlo quando ha compreso di averne un bisogno atavico.
Kagge ci suggerisce un paragone. Avete mai notato che i bambini riescono a trascorrere molto tempo in silenzio? Sembrano isolarsi, proprio come vorrebbero fare gli adulti, perdendosi nel loro spazio interiore. Da bambini ci si annoia, si ha questo lusso. Lentamente, crescendo, ci si scopre a colmare i silenzi parlando con gli sconosciuti sugli autobus o generando “rumore” con azioni senza alcun obiettivo. Non ci si ferma più a vivere l’istante, si crea velocità, poi da anziani ci si lamenta di non aver vissuto abbastanza e ci si rende conto che il vero errore è stato quello di riempire il tempo con il nulla e di non aver goduto a fondo di ogni istante.
Trovare il proprio silenzio personale
Il silenzio è un lusso dato dal sottrarre. Ed è un lusso perché il mondo ha reso il silenzio complicato da trovare, dentro di noi ma anche fuori di noi. Siamo arrivati al punto di offrire alle persone l’esperienza del silenzio in centri appositi dove ritrovare il benessere, provvisti di stanze insonorizzate.
Ma, il silenzio, possiamo crearlo in ogni momento. Mentre ci laviamo i denti, mentre cuciniamo, mentre laviamo i piatti, mentre camminiamo, mentre leggiamo un libro. Silenzio è ritrovare ciò che ci rende sereni, è diventare un’isola ponendo spazio tra noi, la nostra anima, e il resto.
Viene da pensare che, probabilmente, Kagge è avvantaggiato.
“L’Antartide è il posto più tranquillo in cui sono stato”, racconta.
La maggior parte di noi vive in condomini chiassosi, in città invase dalle automobili, viaggia su mezzi pubblici strapieni, fa acquisti in negozi affollati, passeggia in parchi dove cercano rifugio in molti.
Durante il lockdown, in piena pandemia da Covid-19, i nostri spazi sono stati pervasi dalla mancanza di suoni, eccetto quelli umani e quelli della natura. Abbiamo riscoperto lo stupore.
In parte abbiamo tratto piacere da quel silenzio. Eppure la nostra mente era sempre in fermento e in cerca di qualcosa con cui colmare quel vuoto.
Kagge racconta di aver imparato in Antartide ad osservare e godere dei minimi dettagli. A casa propria ognuno gode di ogni cosa a mani piene ma in Antartide si può godere soltanto delle piccole sfumature della neve, dei piccoli mutamenti nelle nuvole. E del silenzio. In Antartide si iniziano conversazioni con la natura, come se i pensieri fluissero verso quei piani che si allungano fino ai monti e restituissero indietro nuove idee. Uno scambio silenzioso.
La forza creatrice della quiete
La questione è parecchio complicata. Non a caso l’arte e la letteratura ne hanno tratto ispirazione.
La storia ci riserva aneddoti paradossali. Beethoven, notoriamente sordo, trasformò il silenzio in musica. Non senza traumi, visto che meditò il suicidio più volte. Già verso i trent’anni faticava a sentire chi gli parlava a voce bassa. Morì completamente sordo. Quattro anni prima, nel 1824, compose la Nona sinfonia con l’Inno alla gioia.
Anche Edison era sordo. Gli insegnanti lo descrivevano distratto e lento ma in realtà lui non sentiva granché. Fu educato a casa, depositò oltre mille brevetti e inventò – ironia della sorte – il fonografo. Pare che per percepire le vibrazioni dello strumento lo mordesse in modo da far vibrare la sua mandibola. Era il suo modo di ascoltare la musica.
Ma tutti noi diventiamo un po’ sordi quando siamo di fronte ad un quadro, ad esempio. Osserviamo, osserviamo, osserviamo… ed è come se venissimo risucchiati. Ci siamo soltanto noi ed il colore davanti ai nostri occhi.
Artisti come Marina Abramovic hanno reso il silenzio stesso arte, lo hanno utilizzato come strumento, sebbene con un certo timore reverenziale derivante dalla consapevolezza di avvicinarsi tramite il silenzio alla conoscenza profonda di se stessi e del mondo.
E poi la poesia, che spesso descrive la persona amata come colei in grado di interpretare i nostri silenzi. Non è forse vero?
Il silenzio genera persino amore. Qualcosa di tanto temibile e tanto complicato da ottenere sa dare frutti meravigliosi. Vari esperimenti sociali lo hanno provato. Tutti almeno una volta abbiamo visto un video virale che ripercorre il test condotto facendo sedere uno di fronte all’altro alcuni sconosciuti per osservarne le reazioni. A seguito di uno di questi esperimenti, citato da Kagge, alcune persone si sono sposate. Tutto è nato in quei pochi minuti in cui è stato loro chiesto di guardarsi negli occhi senza parlare. Il silenzio ha permesso loro non solo di superare l’imbarazzo ma di andare ben oltre gli sguardi, ponendosi in ascolto profondo dell’altro.
Fino all’anima. Fino all’amore.
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_ di Anna Tita Gallo