Atleta del cuore
Un attore “atleta del cuore”, come diceva il poeta Antonin Artaud? Certo, ma anche atleta vero e proprio. Attore di fiato, attore di gambe. E anche maratoneta? Anche. L’attore che recita correndo, andando in bicicletta, sui trampoli, scendendo con una fune dalla facciata di un palazzo, facendo sequenze acrobatiche, rotolando, saltando, cantando… Per tutto ciò è richiesto un addestramento; è un addestramento fisico: ore e ore di lavoro in sala, come un danzatore, in modo che il corpo sia pronto a far vibrare in ogni muscolo, con il fremito-tremito giusto, quel tale grado di energia, di dedizione, di dimenticanza di sé, in modo che ogni impulso della “parte” passi direttamente nella carne, nei muscoli, senza passare dalla testa che deformerebbe tutto a proprio uso e consumo. Dunque ci vuole un corpo sensibilissimo, e un organo fonatorio in grado di esplorare le “voci”, non solo la voce. Spesso si pensa all’attore come a qualcuno che debba usare la voce per traghettarvi la parola: è giusto, ma vale anche il contrario: è la parola a traghettare la voce. Così, attraverso la parola che si fa voce noi possiamo scoprire tutte le voci che dormono dentro di noi. “Io è un altro”, diceva il poeta Rimbaud, con questa affermazione, oltre a cogliere la chiave profonda della nostra essenza umana, egli fa intravedere la fonte viva cui attinge il poeta, a cui attinge l’attore. Non “io”, ma “altro”. Così la voce è un altro. Essa è un paesaggio complesso, non si riduce a una visione monofocale (la voce impostata, calda, magari seducente, ma irrigidita nel suo dover dimostrare il proprio potere acustico di fascinazione attraverso il metro della gradevolezza; voce che suona quasi subito falsa: quanti attori sfoggiano impunemente voci così, che non sanno uscire da sé?). Quando l’attore padroneggia, o meglio, è in grado di farsi padroneggiare da altri “io”, da altre voci, (o da quell’“Io è un altro”), diventa qualcosa di più di un mezzo per il testo dell’opera, diventa un evento biologico ricreato sulla scena, ed ha la stessa forza di un essere vivente scovato nella giungla profonda. Magari bizzarro come un ornitorinco, ma curiosamente vicino; lontano e sconcertante, e tuttavia stranamente familiare.
Uscire dal teatro
È con attori così che si può provare a uscire dal teatro, questo luogo culturalmente così connotato. Un luogo convenzionale dove la convenzionalità si trasmette ereditariamente e inconsapevolmente all’artista, se non è sveglio e pronto a contraddire la fortezza che lo protegge e insieme rinchiude. Un attore così, in grado di manipolare come desidera un’energia psicofisica extraquotidiana, può uscire dal teatro senza alcun pericolo, perché, per lui, ogni luogo può farsi teatro: le strade di una città, un condominio, un carcere, un manicomio, un bosco, un fiume, un lago, un mare, una montagna, la stanza di una casa privata, il tavolino di un bar, una motonave e chissà cos’altro.
Tutto il teatro della seconda metà del Novecento si cerca fuori da sé, e così facendo esce fuori di sé, perde tutti i suoi equilibri e sicurezze secolari, a volte sfiora la follia, o la incontra, o la cambia, o la incorpora. Nel 1973 un gruppo di artisti (non solo teatranti) entra nel manicomio di Trieste, allora diretto da Franco Basaglia: con il loro lavoro scardinano quell’istituzione totale che è l’ospedale psichiatrico. Il teatro libera storie, smuove energie, ricompone biografie: i malati riacquistano un’umanità negata, e con il grande cavallo di cartapesta azzurra (Marco Cavallo), che hanno costruito insieme agli artisti, escono nella città e si mischiano, per la prima volta nella storia, con i cittadini, con la gente “normale”. Era il 1973. Cinque anni dopo, nel 1978, viene approvata la famosa legge 180, detta “legge Basaglia”, che chiude definitivamente i manicomi. L’attore in fondo è un artista che lavora la propria follia come fosse una forma di energia particolare, che gli permette di mettere in moto, nella testa, nel cuore e nei nervi dello spettatore reazioni altrettanto energetiche, in qualche modo purificatrici. L’attore, in un certo senso, è il riflesso della nostra energia potenziale.
_ di Franco Acquaviva