In occasione della campagna Energica, abbiamo incontrato la psicologa Monnalisa Chiodi per parlare di cosa significa curare e sostenere psicologicamente chi ne ha bisogno
Monnalisa è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemico relazionale.
La sua professione l’ha portata a lavorare in un centro per le Cure Palliative, una rete di protezione e accompagnamento per i pazienti che non possono più fare cure attive e che quindi non rispondono più a trattamenti specifici (come nel caso della chemio per i malati oncologici).
Ogni giorno, da tre anni a questa parte, tocca con mano le emozioni dei suoi pazienti, mettendosi al loro servizio per garantirgli la miglior qualità di vita possibile nei loro ultimi passi.
Percorsi di sofferenza e dolore che grazie all’accompagnamento di una terapia emotivo-psicologica che parla alla mente, allo spirito e alle emozioni possono essere vissuti con una diversa consapevolezza.
Raccontare una professione delicata come quella di Monnalisa può non essere semplice e rischia di mettere in secondo piano l’energia e la speranza che sono parti fondamentali del suo lavoro quotidiano.
A sciogliere ogni dubbio ci ha pensato lei stessa con la sua carica di buon umore ed energia.
Avendo a che fare quotidianamente con il dolore e con una sofferenza visibile, come fai a trasformarla in energia positiva verso la tua professione?
L’energia la trovo nella passione e nell’amore che ho nei confronti del mio lavoro. Ho a che fare con l’emotività nella sua forma più forte che è data dalla vicinanza con la sofferenza, ma la voglia di aiutare le persone che incontro mi dà una carica pazzesca!
Io sono una persona molto positiva e continuo a lavorare su me stessa per trovare l’energia quotidiana utile per fare questo lavoro.
Lavorando con una squadra di professionisti ho comunque una rete di “protezione” nei casi in cui ho un calo di tensione fisiologico. Ogni settimana ci confrontiamo tra di noi per rimanere sempre sul pezzo, altrimenti sarebbe impossibile aiutare i nostri pazienti.
Se non sto bene come posso aiutarli?
Le parole sono importanti e il contesto in cui si pronunciano influenza la loro percezione. Tu come riesci a plasmarle in modo che dà esse possa essere ricavata l’energia utile alla terapia?
Aiutare gli altri mi dà energia e le parole vengono da sé.
Non c’è una formula magica per trasformare il significato delle parole, ma esiste l’impegno quotidiano e la passione che ti permettono di lasciare fuori dal lavoro tutte le preoccupazioni per metterti al servizio delle persone.
Noi lavoriamo attraverso le parole degli altri: sono le stesse parole dei pazienti che nel nostro lavoro di ascolto e accompagnamento si trasformano ogni volta in qualcosa di diverso!
Conquistare la loro fiducia con la vicinanza, l’emotività che trasmettiamo e con l’ascolto aiuta più di qualsiasi parola.
Ti è mai capitato un paziente che abbia affrontato la loro condizione con una certa positività?
Più di una volta.
Alcune persone la prendono con filosofia o sdrammatizzano cercando un contatto con il male che li sta piano piano portando via. Penso a un ragazzo che ha cominciato a dare un nome al suo tumore e a dargli del tu.
É chiaro che in questo c’è un tentativo di trovare la forza per non farsi sopraffare dalla paura.
Lo vedi dallo sguardo, dai movimenti del corpo, dalle loro reazioni o dal tono della voce.
Poi c’è anche chi non riesce a mantenere per troppo tempo questa energia positiva, scoppiando a piangere o a ridere in maniera isterica.
Ho notato che l’atteggiamento positivo verso la morte è più presente negli anziani, rispetto a una persona giovane che stava vivendo i suoi migliori anni e che ha paura di lasciare la propria famiglia da sola. Ed infatti il percorso terapeutico avviato con un ragazzo è decisamente più difficile da affrontare, più complesso e più destabilizzante.
Che ruolo ha la fede o un retaggio culturale particolarmente forte nel percorso terapeutico?
L’attaccamento a qualcosa, qualsiasi cosa, anche quella in apparenza meno funzionale, è vitale.
Ad esempio, credere in Dio aiuta molte persone nel trovare la forza di affrontare il percorso.
In alcuni casi però rischia di diventare un limite: a volte l’attaccamento all’una o all’altra religione o a delle radici culturali particolarmente forti influenzano gli atteggiamenti dei pazienti e complicano il cammino. Penso ad esempio ad una persona che – a causa delle sue credenze – era combattuta tra la necessità di esprimere la sua sofferenza attraverso le lacrime con l’imposizione di una morale che non lasciava spazio a queste “debolezze”.
Una lotta senza vincitori tra energie che si annullavano.
Quanto è importante la partecipazione dei parenti e degli amici nel percorso dei pazienti che percorrono il tratto conclusivo della loro vita?
Nell’accompagnamento è fondamentale mantenere alta la qualità della vita e la loro partecipazione è importantissima.
Loro stessi poi sono accompagnati nel percorso attraverso dei colloqui di sostegno in cui sei sommersa da tantissima energia emotiva.
A volte è nei rapporti interni alla stessa famiglia che si nascondono le radici della sofferenza. Sta a noi lavorare su questi aspetti per dare sostegno ai pazienti che accompagniamo alla fine e ai familiari che dovranno abituarsi al vuoto della loro scomparsa.
L’importante è cercare di risolvere quanto c’è in sospeso nel loro rapporto, prima che si arrivi al punto di non ritorno, e nella loro vita in generale.
Penso, ad esempio, ad una paziente oncologica che aveva dei dolori fortissimi e che desiderava tanto rivedere il figlio che era in carcere. Una volta che siamo riusciti a farli incontrare, lei ha avuto la forza e la “serenità” di lasciarsi andare.
Ogni persona reagisce in maniera diversa: c’è chi scoppia a piangere, chi diventa rosso dalla rabbia o chi ride istericamente. Qualsiasi parola o gesto, anche quello più sciocco, può avere dei risvolti positivi. Per questo noi invitiamo i parenti o gli amici che decidono di partecipare alla terapia a parlare, a dire qualsiasi cosa per far sentire la propria vicinanza.
Viviamo in un periodo dove gli spazi per le relazioni umane si riducono sempre più e la pandemia ha amplificato questo senso di vuoto. In genere alle donne è riconosciuta una maggiore capacità aggregante nelle relazioni. Secondo te quale ruolo ha la donna oggi?
C’è una fragilità che sta toccando tutti allo stesso modo e non sono convinta che l’energia di una donna basti da sola per tenere insieme una casa o una famiglia.
Secondo me la pandemia ha quasi azzerato questa distinzione tra uomo e donna. Siamo tutti sulla stessa barca e siamo tutti condizionati dalla situazione.
Magari noi donne, rispetto agli uomini, riusciamo a trovare modi sempre diversi per trovare l’energia necessaria per andare avanti. Questo ce lo concedo.
Detto questo, vedo – anche con il mio lavoro – molte difficoltà per la donna nel mantenere questa forza e questo equilibrio e non credo che sia un caso che proprio in questa pandemia i dati sulla violenza domestica subiti dalle donne siano aumentati.
Alle donne è tradizionalmente associata una maggiore emotività rispetto agli uomini. Nella tua professione, emerge questo punto di vista nella scelta dei pazienti di essere seguiti da una donna piuttosto che da un’uomo?
Dipende molto dalle persone, in quanto ognuno di noi vive il rapporto con l’altro sesso in maniera unica.
Se è vero che una donna è generalmente più emotiva, nella nostra professione quello che emerge non è il genere ma la professionalità.
Da diversi anni c’è sempre più attenzione sulla parità di genere. Credi che questi cambiamenti possano portare solo benefici o che possano comunque nascondere delle insidie?
I passi in avanti che sono stati fatti sono tanti e senza dubbio tutto questo è positivo, ma allo stesso tempo credo che a volte la spinta di queste lotte possa portare a una confusione tale da far perdere di vista le priorità della propria vita.
Credo che la chiave di tutto stia nella capacità di scegliere il meglio per sé stesse.
Ogni donna dovrebbe scegliere in base a ciò che sente e rinunciare a qualcosa può non essere negativo, anzi. Può far stare bene.
Noi donne raccogliamo e diamo tanta energia ma non è comunque semplice bilanciare la carriera, le passioni, gli interessi e la propria vita privata.
Ho cominciato la nostra chiacchierata domandati dove riesci a trovare l’energia per affrontare la tua professione. Vorrei concludere ripartendo da qui.
Cosa fai invece per mantenere la tua positività e la tua energia fuori dal lavoro?
Io sfogo ogni tensione con la corsa e con le passeggiate all’aperto.
Ogni giorno corro o cammino per lunghi tratti, non mi ferma neanche la pioggia (ride, ndr). Anche l’acqua è fonte di energia, no?
Poi adoro ballare e appena gli impegni di psicologa, di mamma e di moglie me lo concedono, non perdo occasione di muovermi al ritmo di musica!
Se vuoi scoprire altre storie di Donne e della loro straordinaria Energia
continua a seguire la campagna Energica sul nostro blog
_ di Simone Picchi