Tutti noi almeno una volta siamo caduti nel tranello di una “bufala”. Il motivo è banale: suonano come verosimili, credibili. Gli asini non volano e gli alieni non sono mai scesi sul pianeta Terra, ma se vedessimo ogni giorno immagini che sembrerebbero documentarlo, piano piano inizieremmo a dubitare delle nostre certezze. In mancanza di fonti affidabili, entrerebbe in azione la nostra capacità di interpretazione delle informazioni. Se è abbastanza sviluppata, ci limiteremmo ad interrogarci e alla fine etichetteremmo come falsa quella notizia; se non lo è, condivideremmo la notizia sui social network senza riflettere, alimentando il dubbio altrui. Poi ci penserebbe il passaparola ad ingigantire una notizia falsa a dismisura. Una fetta di utenti del Web la tratterebbe come vera, potenziandone gli effetti. Se vi sembra un resoconto esagerato, facciamo un esempio concreto. La Terra non è piatta, ma alcuni credono fermamente che lo sia. Ci credono nonostante abbiano visto le foto scattate dallo spazio e nonostante fiumi di letteratura scientifica. Abbiamo persino coniato un nome per questa categoria di persone, li chiamiamo “Terrapiattisti”, hanno conquistato un loro posto nel mondo dell’informazione e ogni giorno continuano ad insinuare il dubbio. Se una fake news viene vestita di credibilità è chiaro che la strada per renderla verità si accorcia.
Le fake news esistono da sempre
L’essere umano adora le storie. L’arte dello storytelling un tempo era incarnata dai menestrelli e le gesta degli eroi si diffondevano per bocca dei viandanti, cambiando trama lungo il tragitto per adattarsi alla cultura delle genti nelle varie tappe. Storie vere si coloravano di dettagli del tutto inventati.
Quelle che chiamiamo “fake news” fino a qualche anno fa erano “bufale”. Internet ha fatto da megafono e oggi la disinformazione è un problema topico per la nostra società. Ma tutta la narrazione umana è costellata di fatti storici che in realtà non sono mai accaduti: Napoleone non era affatto basso, Maria Antonietta non pronunciò la frase “Che mangino brioches!”… luoghi comuni entrati nel patrimonio collettivo di informazioni.
Alcuni sono innocui, altri pericolosissimi.
Sociologi e psicologi spiegano la nostra credulità
Un concetto fondamentale per capire come le fake news facciano presa sulla nostra mente è il meccanismo descritto come “confirmation bias”: del tutto inconsapevolmente, tendiamo a soffermarci su informazioni che confermano i nostri dubbi, le nostre tesi, i nostri pregiudizi. Questo fenomeno è fondamentale per costruire campagne di marketing efficaci (convincere che un prodotto o servizio sia indispensabile, utilissimo, perfetto), ma diventa pericoloso se utilizzato per costruire fake news. Tutto viene manipolato a regola d’arte perché sia credibile (e quindi poi spacciato come vero) e destinato ad un target molto preciso, che spesso è quello di chi cerca perennemente un capro espiatorio a cui addossare i problemi del mondo e ben si guarda dall’approfondire. Eppure, in molti casi, per smascherare una bufala basterebbe una ricerca su Google.
“Siamo portati più a confermare una ipotesi tramite prove a favore che cercare di prendere in considerazione evidenze contrarie”, diceva Francis Bacon, quando ancora non si parlava certo di fake news.
Uno dei punti di forza di chi fa disinformazione o costruisce fake news è il saper presentare informazioni e dati in maniera che sembrino incontrovertibili, camuffati da verità. Quando si tratta di dati scientifici la nostra capacità di discernimento è messa a dura prova. Non sempre sappiamo risalire alla fonte, non sempre la fonte è in una lingua che conosciamo, non sempre siamo in grado di comprendere. Se la traduzione e l’interpretazione sono plausibili, tendiamo a fidarci. E qui scatta la trappola! Dovremmo essere tutti San Tommaso moderni, ma non abbiamo il tempo di verificare tutte le informazioni, o non siamo in grado di farlo, oppure siamo in preda ad una pigrizia atavica che non ci fa risalire alle fonti. Ma attenzione: una sorta di pigrizia mentale è del tutto normale. La mente evita di processare una seconda volta informazioni verosimili o già incamerate o simili a conoscenze che possediamo da tempo. Non è colpa nostra.
Il problema è che l’opinione pubblica e il pensiero collettivo si formano attraverso le informazioni a disposizione. Ecco un meccanismo che dovrebbe farci riflettere, se non allarmarci. Negli Anni Novanta il sociologo Joseph P. Overton descrisse un processo di comunicazione persuasiva che prese poi il nome di “finestra di Overton”. Attraversando una serie di fasi, i concetti passano dall’essere del tutto improbabili all’essere assolutamente credibili e assodati:
- impensabile/unthinkable
- radicale/radical
- accettabile/acceptable
- razionale/sensible
- diffusa/popular
- legalizzata/policy
Significa che i concetti più assurdi possono riuscire a saltare da una fase all’altra e a diventare verità riconosciuta, tanto più se supportati da una strategia di comunicazione mirata, come accade nelle campagne politiche. E il destinatario dei messaggi collabora, da un lato involontariamente a causa di quei “confirmation bias”, dall’altro consapevolmente, evitando di cercare prove che possano smontare i suoi pregiudizi, falsi miti, dubbi. Così, lentamente, la storia si riscrive.
_ di Anna Tita Gallo