In occasione della campagna Energica, abbiamo incontrato Paolo Dell’Oca, portavoce della Fondazione Arché, per parlare della loro attività e di cosa significa aiutare donne in difficoltà
Può un uomo portare avanti le battaglie delle donne con onestà e franchezza? Esistono davvero uomini disposti a rinunciare ad alcuni privilegi concessi da una società maschilista a favore delle donne? La storia e le riflessioni che state per leggere lasciano spazio ad una sola risposta: Sì. Abbiamo chiesto ad un uomo di parlare di donne e di diritti, ad un uomo che per lavoro si batte proprio per concedere alle donne la libertà che meritano: dalle violenze, dalla sofferenza, da uomini aguzzini. A Paolo Dell’Oca – portavoce della Fondazione Arché – abbiamo chiesto di raccontare la sua prospettiva e il suo impegno quotidiano all’interno di una realtà composta da tanti operatori, uomini e donne, che si prendono cura di famiglie vulnerabili, nelle quali spesso le donne sono peraltro l’unico genitore presente con bambini a carico.
Un uomo che “porta la voce” delle donne: è un paradosso?
Può sembrare un paradosso che Paolo – un uomo – sia il portavoce di una fondazione che ha come mission quella di far valere i diritti delle donne, diritto di parola compreso.
La polemica è reale: forse le donne non possono parlare per sé e da sé?
“A dire il vero spesso sorrido se penso al mio ruolo – ci racconta Paolo – Mi viene in mente una frase di Margaret Thatcher, che diceva ‘Se vuoi che venga detto qualcosa, chiedi a un uomo, se vuoi che venga fatto qualcosa, chiedi a una donna’. Questa frase potrebbe screditare molto la mia professionalità… Posso soltanto dire che sono davvero lieto di essere un uomo che porta la voce di una battaglia sociale per i diritti e per la dignità. Io da un lato racconto le famiglie vulnerabili – e le donne spesso sono protagoniste di questa narrazione, essendo l’unico genitore presente – dall’altro la speranza di una vita serena, un lavoro, una qualità della vita migliore per le donne e per i propri figli”.
Come ci spiega Paolo, l’attività quotidiana di Arché consiste nel supportare bambini e famiglie vulnerabili nella costruzione di un’autonomia sociale, abitativa e lavorativa. Chiaramente, le donne sono spesso il soggetto più vulnerabile, a volte perché vengono da situazioni di dipendenza, altre volte perché sono vittime di violenza domestica, altre volte perché la nostra società è cronicamente intrisa di maschilismo.
“Arché si prende cura di queste famiglie offrendo soluzioni come appartamenti di semiautonomia, ad esempio, si impegna negli ospedali ma si impegna anche nel promuovere una cultura diversa nelle scuole promuovendo incontri sull’uguaglianza di genere. Siamo tutti immersi in una cultura maschilista, il primo passo è prenderne consapevolezza, ammetterlo, sebbene non sia certo la soluzione”.
La tutela dei diritti di tutti durante la pandemia
Battersi per i diritti significa battersi per i diritti di tutti, ecco perché uno dei problemi che Arché ha affrontato durante la pandemia è stato quello di creare le condizioni di sicurezza durante gli incontri tra i vari membri del nucleo familiare, in particolare adoperandosi per far sì che i papà – gli uomini – nella fase del proprio percorso in cui tornano ad affiancare le proprie compagne non venissero allontanati a causa delle restrizioni imposte dal Coronavirus. Soprattutto il primo lockdown è stato un periodo complicato, in cui tutta la fondazione ha dovuto rivedere la propria attività: molti progetti sono stati portati avanti da remoto, altri sono stati sospesi temporaneamente, tutto questo mentre la domanda di supporto aumentava. “Siamo stati tutti messi alla prova, non solo noi di Arché ma l’intera umanità. Per poter continuare a lavorare gli operatori hanno dovuto allontanarsi dalle proprie famiglie e isolarsi per minimizzare il rischio di contagio e da continuare a garantire il supporto a chi ne aveva bisogno. Il rischio era che qualcuno si ammalasse o portasse il virus all’interno della comunità, bloccando ogni attività. Oggi conosciamo un po’ meglio questo virus, siamo più consapevoli ed organizzati. Pesa sulle nostre spalle un anno di sacrifici, ma abbiamo tenuto duro, è il nostro lavoro”.
Come un linguaggio maschilista alimenta le disuguaglianze
Anche quello della cultura maschilista, secondo Paolo, è una sorta di virus. Finché non abbiamo una soluzione unica che possa risolverlo possiamo però percorrere tutte le strade possibili, dalle quote rosa al passaggio del cognome delle madri ai figli, dalla lotta alla violenza di genere alle disuguaglianze nel mondo del lavoro, senza dimenticare il ruolo chiave che ricopre il lessico che utilizziamo ogni giorno: “Se usciamo a cena con amici e un neonato piange ci viene da chiedere alla mamma come mai hanno dimenticato il ciuccio, non al papà”, ci fa notare Paolo. SItuazioni normali, in cui nessuno crede di fare un torto alle donne né intende farlo volontariamente, ma che mostrano proprio quel maschilismo culturale che permea anche le conversazioni più banali.
In altre situazioni si tende a scadere nel mansplaining, quell’atteggiamento di alcuni uomini che molto paternalisticamente cercano di fornire spiegazioni alle donne in maniera semplificata, come dall’alto di un piedistallo, o in modo condiscendente, quasi a volerle aiutare a comprendere. Atteggiamenti non sempre volontari ma che pongono la donna come su un piano differente, inferiore.
Paolo ci fa notare un’analisi che l’ha colpito, il test di Bedchel applicato al mondo del cinema, un metodo assolutamente empirico per valutare l’impatto dei personaggi femminili nelle trame. Quante volte due personaggi femminili che parlano tra loro non parlano di un uomo? E quante volte di quei due personaggi si conosce il nome? Domande apparentemente semplici, ma proviamo a rispondere numeri alla mano mentre guardiamo sul nostro divano una serie tv o un film. Qualche calcolo rapido ci fornirebbe una panoramica a dir poco poco scoraggiante sulla disuguaglianza di genere, soprattutto concentrandoci su prodotti di qualche decennio fa. Numeri che, tuttavia, possono essere un primo passo verso un’opera di sensibilizzazione efficace.
“E contiamo anche questi registi uomini in più ci sono rispetto alle registe donne, consideriamo che termini come ‘cameraman’ presuppongono già che quella professione sia riservata agli uomini – ci fa notare Paolo – E’ angosciante. Mia figlia crescerà con questo modello culturale”.
Dopo le violenze, la comunità. Ma non sempre c’è il lieto fine
Abbiamo chiesto a Paolo se ci fosse un volto, una storia particolare, una donna che ha incontrato nella sua attività in Arché da lasciare ai nostri lettori come emblema di ciò che accade oggi alle donne, in Italia e non solo. Paolo ci racconta la storia di Carolina (nome di fantasia), fuggita da violenze inaudite e “costretta” a restare in comunità per 8 mesi in attesa del processo a carico del compagno, a lungo perplessa di fronte al fatto che fosse lei – e non lui – a dover essere allontanata dalle sue radici, dalle sue amicizie, dalla sua vita.
“Chiaramente all’inizio, dopo tante violenze e torture, non capiva perché dovesse essere lei quella a vivere in comunità in attesa della sentenza, per quanto potesse essere piacevole dal punto di vista relazionale restare con noi di Arché. E’ stato emozionante vederla andare via da donna libera e liberata. Purtroppo so che altre battaglie non hanno avuto lo stesso risultato e che spesso, anzi, molte donne tendono a tornare da quei compagni che hanno arrecato loro tanta sofferenza. Capisco il perdono ma faccio fatica a comprendere quel ritorno dall’aguzzino, mi pesa molto quando accade, è come se il percorso di affiancamento fosse un po’ invalidato. Il mio timore è sempre questo, soprattutto considerando che i femminicidi sono davvero all’ordine del giorno”.
Insomma, il lieto fine non c’è sempre, ma tutti possiamo combattere una piccola battaglia per rendere il nostro mondo un po’ più sgombro da pregiudizi e stereotipi e per far sì che le donne possano fidarsi dell’umanità.
Restiamo ottimisti e per farlo prendiamo ancora in prestito una considerazione di Paolo: “Non possiamo permetterci che le battaglie per i diritti che portiamo avanti siano battaglie prettamente maschili. Arriveremmo soltanto a mezze vittorie e il mondo sarebbe ogni giorno un po’ più povero. E’ faticoso ma la soluzione è nel correggere ciò che non funziona, traendo speranza dai successi che raccogliamo e utilizzandoli come insegnamento”.
_ di Anna Tita Gallo