La notizia che tutti aspettavamo è arrivata: il buco dell’ozono si sta restringendo. Ed è una vittoria della scienza
Gli sforzi collettivi portano spesso buoni risultati. Ecco perché questa notizia vale tanto, tantissimo, a tal punto da poterla considerare come uno dei più grandi successi ambientali mai raggiunti: il buco dell’ozono si chiuderà presto. Certo, come data stimata si parla del 2040, non proprio domani, ma quando si tratta di scienza il concetto di tempo assume significati diversi a seconda delle specifiche tematiche affrontate: in questo caso c’è da essere ottimisti, senza dare tutto per scontato.
Cos’è il buco dell’ozono?
La lotta al buco dell’ozono è sempre stata una strada in salita, ripida a tal punto che fino agli anni Novanta il complottismo di fronte a questo tema era ancora dilagante. Ancora oggi troppi scienziati mostrano dubbi sull’effettiva pericolosità del problema ma già dal 1987 le misure prese per contrastare il fenomeno cominciavano ad essere rigorose, grazie al Protocollo di Montreal, un trattato internazionale che imponeva un progressivo ridimensionamento della produzione dei gas clorofluorocarburi (CFC), ritenuti i principali artefici del potenziale disastro.
Da lì in poi la questione venne presa sempre più sul serio seppur contrastata dai fortissimi interessi di alcune delle società chimiche più importanti al mondo. Una sola molecola di CFC, una volta giunta nell’alta atmosfera, si parcheggia per circa un secolo causando la distruzione progressiva di centinaia di migliaia di molecole d’ozono. Queste molecole compongono l’ozonosfera, lo strato dell’atmosfera che si preoccupa di assorbire e trattenere parti di energia provenienti dal sole e quindi preservare la vita sulla Terra dalle radiazioni che causerebbero malattie gravi, tumori compresi.
L’assottigliamento sempre più evidente dell’ozonosfera nel corso degli anni ha raggiunto misure preoccupanti soprattutto nelle regioni polari terrestri, tanto da essere definito buco dell’ozono proprio per sottolineare la portata del fenomeno in
queste specifiche zone della terra. Solo nel 2020 l’estensione del buco dell’ozono in Antartide raggiungeva le dimensioni record di 25 milioni di km quadrati, per tal motivo in queste remote aree terrestri il processo di guarigione sarà più graduale
(2066).
L’impegno a livello internazionale
Il protocollo di Montreal del 1987 fu solo l’inizio. Un inizio tutt’altro che semplice. Tantissimi colossi dell’industria tentarono di contrastare la messa in vigore del trattato, ma anche alcuni paesi in via di sviluppo o alla ricerca di un consolidamento
di livello nazionale ed internazionale (Cina e Russia) vissero il protocollo come un attentato alla loro prosperità e ai loro investimenti. Per questo lo sforzo internazionale si concentrò sulla conversione dei CFC in altri prodotti di egual
utilizzo, sostenendo chiunque nella progressiva cessazione della loro produzione.
Uno sforzo che ora mostra i suoi frutti grazie all’impegno dei 197 stati aderenti. Il 99% dei CFC è stato eliminato ad oggi, anche se nel contempo si sono scoperte altre cause di distruzione dell’ozono.
Ma attenzione: la chiusura del buco dell’ozono non risolve il macro-problema del cambiamento climatico, anzi non viene considerato un fattore primario connesso al surriscaldamento globale. Quest’ultimo è il prodotto di diversi fenomeni causati dall’attività umana che sarà ben più difficile contrastare: servirà uno sforzo decuplicato. Per questo la chiusura del buco dell’ozono è solo la prima buona notizia di tante che ci dovremmo aspettare.
I rischi da calcolare
Come accennato all’inizio dell’articolo, non dobbiamo dare nulla per scontato. Basta poco, pochissimo per ritardare la chiusura del buco dell’ozono. Se è vero che nel corso degli anni abbiamo dovuto aggiornare la lista nera dei prodotti responsabili dell’assottigliamento dell’ozonosfera (gli HFC per esempio, dannosissimi gas serra), è altrettanto vero che alcuni rischi derivano dalle gesta di madre natura in toto. I vulcani per esempio producono acido cloridrico e cloro che agiscono dannosamente sullo strato d’ozono (celebre il caso Pinatubo).
Non solo: bisognerebbe fare il punto sui satelliti. Già. Entro il 2030 i satelliti in orbita previsti saranno quasi 60000. Oggi sono 6000. Il loro stazionamento nello spazio è potenziale causa di danni all’ozonosfera. Con l’aumentare delle missioni e
dell’esplorazione spaziale le conseguenze potrebbero essere diverse, non ultima l’aumento della temperatura annuale che degraderebbe lo stato di salute dell’ozonosfera.
Anche qui è la scienza, che già opera così evidentemente bene, a dover innescare uno sforzo ulteriore allo sviluppo di sistemi più ecologici che non causino danni. Spoiler: lo sta già facendo.
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_Damiano Cancedda